Strani musei Piemontesi
Tutti insieme potrebbero stare solo in un quadro di Hieronymus Bosch. Pere di alabastro, cavatappi, scope da spazzacamini, cervelli umani e parasoli. E invece nell’apparentemente austero Piemonte ognuno di loro ha i riflettori puntati proprio su di sé, in un museo personale. Ecco un viaggio tra collezioni inaspettate, che attraversa città sabaude, monti selvaggi, laghi fioriti e fertili colline.
Tutti insieme potrebbero stare solo in un quadro di Hieronymus Bosch. Pere di alabastro, cavatappi, scope da spazzacamini, cervelli umani e parasoli. E invece nell’apparentemente austero Piemonte ognuno di loro ha i riflettori puntati proprio su di sé, in un museo personale. Ecco un viaggio tra collezioni inaspettate, che attraversa città sabaude, monti selvaggi, laghi fioriti e fertili colline.
Torino ospita il Museo della Frutta Francesco Garnier Valletti. Siamo a due passi dal Po e dal Valentino, nella zona tradizionalmente dedicata agli studi di botanica. Nell’ottocentesca sede della facoltà di Agraria è esposta da poco più di un anno l’affascinante collezione di Garnier Valletti, artigiano, artista e scienziato, ultimo e principale protagonista della Pomologia Artificiale, l’arte di creare frutti così realistici che vien voglia di addentarli. Il suo segreto era una miscela di alabastro, cera e gomma damar, con cui creò più di mille frutti, in gran parte mele e pere. Oggi ognuno di loro è conservato in armadi vetrati, impettito sul suo piccolo piedistallo di legno, completo di etichetta della varietà in calligrafia svolazzante. Nella stanza accogliente, che ricorda gli interni della farmacie di una volta, col sottofondo di musica anni Trenta, sfilano pesche, uva, susine, barbabietole, funghi, tutti dall’aspetto succulento, e disgustosi modelli di muffe e putrefazioni di mele. Sono l’esempio più lampante di come la biodiversità si sia persa nel tempo: nessuna traccia oggi della belle conquête e della bonne de Mai, e nemmeno dell’enorme blanche de Bonnay. Restiamo a Torino: stesso palazzo e stessi armadi di legno vetrati, ma ben diverso contenuto. Siamo al Museo di Anatomia Umana dell’Università Luigi Rolando. Sembra di essere in una chiesa, con navate dipinti e reliquie, ma è un museo scientifico ottocentesco, che spiega come veniva studiata l’anatomia secoli fa.
Sono le statue ad impressionare di più, perché a quei tempi un modello di corpo umano poteva avere un volto delicato e persino capelli fluenti, ed essere squarciato solo nel punto utile allo studio, come capita per la donna gravida solo nel ventre aperta. Lo studio scientifico si avvicinava all’arte, e l’effetto oggi è inquietante e per questo affascinante. Dalle navate salutano due professori votati alla scienza anche dopo la morte: hanno lasciato ai futuri studenti uno il proprio scheletro, l’altro un braccio in formalina.
Il Piemonte ha un capoluogo che si permette studi e bizzarrie, ma è fatto anche di monti impietosi, terra di lavori umili ed emigrazione. A Santa Maria Maggiore, Val Vigezzo, a pochi chilometri dalla Svizzera, fino agli anni Cinquanta del Novecento i bambini venivano venduti o prestati per andare in città d’inverno a fare gli spazzacamini. Un mestiere malsano: i piccoli erano malnutriti per poter passare agevolmente dalle cappe, a rischio di incendio, soffocamento e cadute. Il Museo dello Spazzacamino è nato anche per fare da testimonianza contro lo sfruttamento del lavoro minorile in qualsiasi forma. Espone raspe, ricci, squarete e caparuze, cioè tutti gli attrezzi del mestiere costruiti dagli stessi spazzacamini con materiali di recupero, tra cui spesso ingranaggi di orologi. Raccoglie anche divise e fotografie, ma l’innovazione più interessante è un percorso sensoriale per far capire ai bambini che cosa significa entrare in un camino. Oltre ai rumori della cappa, nelle cuffie scorrono filastrocche, poesie e canzoni, come la celeberrima Cam Caminin.
Seguendo le tracce di Mary Poppins raggiungiamo il Museo dell’Ombrello e del Parasole, a Gignese (Verbania), in posizione panoramica sul Lago Maggiore. In un edificio di mattoni, ovviamente con la pianta a forma di tre ombrelli, sono esposti circa 150 pezzi, tra cui quelli che ripararano Mazzini e la regina Margherita di Savoia. Si scopre che in origine l’ombrello non serviva per ripararsi dalla pioggia ma dal sole, che esistevano ombrelli "da giostra" per cavalieri medievali, e che i primi pieghevoli furono inventati in Francia a inizio Settecento da un certo Monsieur Marius, che li pubblicizzava coi suoi biglietti da visita. Come il Museo dello Spazzacamino, anche questo è nato per ricordare un mestiere storico della zona: nel Vergante esistevano ben 170 dinastie di ombrellai, di cui oggi non è rimasta quasi traccia.
Dalle trine dei parasole ottocenteschi, a un altro oggetto di uso comune che può essere nobile ed elegante: il cavatappi. A Barolo (Cuneo), nel cuore delle Langhe, un farmacista ha abbandonato il camice per creare uno dei pochi musei al mondo dedicati all’arte dello stappo. Ha raccolto più di mille esemplari in una piccola suggestiva cantina storica: cavatappi da profumo, da medicinale, satirici, come quello col volto del senatore che promosse la legge sul Proibizionismo, erotici, con le gambe di ballerine del cancan, di avorio e pietre preziose.
Qui termina il viaggio tutto piemontese nei piccoli musei di piccole cose: collezioni minute e poco note, ma ognuna di loro è una miniera di scoperte, storie e suggestioni, davvero degno specchio di una regione dalle mille sfaccettature.
Fonte: www.repubblica.it