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Sarajevo

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E’ sempre strano visitare per la prima volta una città che già vive nel nostro cuore, nella nostra memoria. E questa sensazione di straniamento raggiunge l’apice se la città è Sarajevo, simbolo delle peggiori atrocità consumatesi nel centro dell’Europa in coda al Novecento quando, tra il 1992 e il 1996, si è stretto attorno alla capitale bosniaca il più lungo assedio dell’epoca moderna. Dalla fine della guerra sono passati quasi sedici anni, ma le sue tracce sono ancora oggi presenti. Sarajevo non dimentica.

E’ sempre strano visitare per la prima volta una città che già vive nel nostro cuore, nella nostra memoria. E questa sensazione di straniamento raggiunge l’apice se la città è Sarajevo, simbolo delle peggiori atrocità consumatesi nel centro dell’Europa in coda al Novecento quando, tra il 1992 e il 1996, si è stretto attorno alla capitale bosniaca il più lungo assedio dell’epoca moderna. Dalla fine della guerra sono passati quasi sedici anni, ma le sue tracce sono ancora oggi presenti. Sarajevo non dimentica.

Anche se, paradossalmente, proprio la tragedia patita ce la restituisce oggi sotto il segno di una specialissima vitalità. Cruda, essenziale, febbrile. Ne ho avuto immediata conferma grazie alla mia fortunata iniziazione alla città. Ero qui per partecipare al Mess, un festival teatrale che da cinquantuno anni raccoglie il meglio della produzione mondiale. Da Giorgio Strehler a Peter Brook, passando per Bob Wilson, non uno dei grandi uomini di teatro è mancato all’appello: prima, durante e dopo la guerra. A dimostrazione del cosmopolitismo innato di questo luogo, del suo multiculturalismo, della sua ultrasecolare convivenza religiosa.
 
Non c’è bisogno di consultare i libri di storia: è sufficiente andare a spasso per il centro cittadino, dove
l’architettura indica di continuo i segni incrociati della dominazione austroungarica (che dà il meglio di sé nel liberty) e quelli della cultura ottomana, con i cortili dei caravanserragli e le classiche casette in legno e calce che si susseguono senza fine nel quartiere artigiano di Bašcaršija. Se poi si passa all’architettura religiosa, il mishmash è ancor più sorprendente, grazie alla presenza di quattro religioni con relativi luoghi di culto: minareti e moschee (tra cui spicca l’elegantissima moschea di Gazi Husrev-Bey), chiese cattoliche e ortodosse (splendida l’iconostasi conservata nella Vecchia Chiesa Ortodossa), infine sinagoghe (che rimandano al periodo in cui la comunità ebraica era numerosissima).

A dispetto di quanto è accaduto negli anni Novanta, il sentimento di convivenza sembrerebbe un dato acquisito per la maggioranza della popolazione. Non altrettanto in ambito politico, come dimostra il delirio etnico-nazionalistico con cui è stata concepita la nuova repubblica, formata da due entità separate – federazione di Bosnia-Erzegovina (con popolazione musulmana e croata) e Repubblica Srpska (abitata dai serbi) – a cui si aggiunge il distretto di Brcko (a popolazione mista). Per cercare di raccapezzarmi, incontro una delle figure più leggendarie di Sarajevo: Jovan Divjak, noto a tutti come "il generale".

Serbo, di stanza nella città bosniaca quando cominciò l’assedio, il generale ritenne che il suo dovere di soldato fosse proteggere la popolazione inerme: una scelta coraggiosa, che gli ha assicurato la gratitudine della città. Con lui faccio un lungo giro in auto, partendo dal centro di Sarajevo, verso le bellissime alture che sovrastano la conca della città, da dove è facile intuire quanto fosse agevolato il compito degli assedianti, convinti che in soli quindici giorni si sarebbe risolta la partita. Le cose, per fortuna, andarono diversamente e un ruolo decisivo, in tal senso, lo svolse il famoso tunnel di ottocento metri, in piccola parte ancora conservato e riadattato a museo, che passava sotto la pista dell’aeroporto: l’unico strumento di rifornimento di viveri, medicinali, armi.

Visitiamo diversi cimiteri cresciuti negli anni dell’assedio, e infine quello ebraico, ben più antico. Secondo per dimensioni solo a quello di Praga, ma forse ancora più bello. Nel frattempo abbiamo il tempo di cogliere da un albero due mele squisite, di tagliare dal ramo una rosa tardiva, di bere un caffè al belvedere della città. "È bella la vita", commenta il generale. E la devono pensare allo stesso modo le centinaia di ragazzi che giorno e notte sciamano nei caffè all’aperto, nei cinema, in locali notturni scalcinati: a momenti, sembra di essere in una specie di piccola Berlino dei Balcani.
 L’indomani mi attende un altro appuntamento, l’ultimo prima di lasciare la città. È con l’architetto Kanita Focakuta.

Visito nuovamente i luoghi più rinomati della città, cogliendo dettagli andati persi in precedenza. Ma la mia attenzione stavolta non cade sulle moschee, le chiese, le sinagoghe. Bensì su una casa, "casa Svrzo", l’edificio meglio conservato dell’architettura bosniaca tradizionale. È un luogo sorprendente: per eleganza, sobrietà, funzionalità, calore. E indubbia originalità: immaginatevi una successione infinita di stanze, concepite come mini loft ante litteram, dove si può al contempo dormire, mangiare, conversare… E lavarsi con acqua calda, grazie a un piccolo spazio separato da una porta di legno intagliato, e collegato a una stufa in maiolica. Kanita, ora, mi mostra un recipiente di rame, facendomi notare una piccola imperfezione nel disegno. "La troverai sempre" mi dice "in qualunque oggetto. È un’imperfezione voluta, ricercata. Per noi bosniaci è un segno di umiltà nei confronti di Dio". Ragione in più perché Sarajevo ci rimanga nel cuore.

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